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Postato venerdì 29 marzo 2024
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Bellflowers Blues
Mark mi fissa. Io ricambio lo sguardo. È uno di quegli istanti che valgono tutta la vita, quelli che, se incorniciati nella celluloide, giurerebbero di poter ficcare la punta delle dita nelle perforazioni laterali e tirarsene fuori. Un po’ è per la scena in sé e per sé: due vecchi amici che si fissano, mentre il tramonto decide che questa giornata può anche chiudersi qui, la distesa polverosa del parcheggio di campagna, la valigetta posata a tre quarti di strada da me, con appena due gocce di sangue che impastano l’arena su di essa. Nel contesto sarebbe più chiaro che con “vecchi amici” non intendo dire che siamo amici e siamo vecchi, ma che c’è stata un’amicizia, ma questa ormai è vecchia, fragile e passa le giornate nell’oblio di pillole di cui non sa pronunciare il nome chiedendo quando la sarebbero andata a trovare i figli. Qualcosa che forse morto non è, ma poco ci manca, di cui non impora a nessuno. Ok, se questa è la definizione di vecchio, in questo caso, immagino che sia un’ottima definizione anche di Mark e me. Mark fissa il proprio torace, stendendo con le dita il cotone della camicia e sporcandole dello stesso sangue che va via via allargandosi su di essa, come una goccia di inchiostro tamponata da un fazzoletto via da una lettera d’amore. Ha un’espressione più offesa che altro, anzi non offesa: costernata. Come se sparare a uno come lui in una polverosa radura di campagna, dopo aver fatto rotolare fino a lui una valigetta piena di banconote ritagliate da fogli di giornale fosse un affronto che qualcuno del mio rango sociale non si dovesse permettere di fare. Mark si accascia a terra senza costringere in parole l’accusa di impertinenza espressa dal suo sguardo, che se non altro denota buongusto. Muore come un farabutto, un miserabile, un reietto, ma non come un ipocrita, quantomeno. Ipocrita sarebbe stato rimproverarmi di averlo ammazzato in un posto tanto banale, per un lavoro tanto insulso e una ragione tanto futile quanto “mi pagano per questo”, dal momento che tutte quelle remore gliele posso fare anche io, visto che la sua pistola aveva fatto un buco del tutto simile a quello del suo torace nel mio fianco destro. Posso dire tante cose brutte su Mark, come avesse un pessimo gusto in fatto di clienti, come non conoscesse la moderazione o il bon-ton, ma almeno la sua mira fa abbastanza schifo da concedermi qualche passo prima di imitarlo. Non tanti passi, non abbastanza per salire in auto e recarmi a un ospedale con il cappello in mano, chiedendo cortesemente se qualcuno potesse tapparmi il buco nel fianco da cui il mio sangue si ostinava con maleducazione a lasciare il mio corpo, ma abbastanza per non morire nella polvere della radura. Venendo qui, nell’ultima curva, ho visto un prato in cui fioriscono le campanule. Come facciano i fiori a decidere dove fiorire è qualcosa che avrei potuto forse sapere in un’altra vita, una in cui non mi sarei messo in gioco per due spicci di denaro sporco. In questa vita so pochissime cose e quelle che importano è che è quasi finita e che un prato di campanule è un posto un po’ più carino per togliere quel quasi e tirare l’ultimo respiro. Poche cose che scopro che mi bastano, mentre trascino la gamba che ha perso sensibilità fuori dalla polvere, sull’erba che la rugiada monderà del mio sangue. Quella stessa erba mi dice ora basta e mi fa inciampare e cadere supino, le mani che ancora si ostinano a proteggermi il volto, futilmente. Voltarmi a faccia in su, nel cielo che volge all’arancio, incorniciato da quelle stelle a cinque punte violacee è il mio ultimo gesto. Muoio così, da mascalzone. Alla fine, non ci vedo niente di male. Non sto morendo niente di più o niente di meno di un calzolaio che tutti i giorni muore di buchi nel cuoio o di un giornalista soffocato un po’ di più dai rotocalchi la mattina. Mi riempio ancora i polmoni della fresca promessa di una sera imminente. E poi basta.
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